UFFICIO COGLIONI & SCISSIONI – NEANCHE IL TEMPO DI INSEDIARSI A PALAZZO CHIGI CHE PER RENZI ARRIVANO I PRIMI CASINI – IL SUO NUMERO 2 NARDELLA PROPONE DI CAMBIARE NOME AL PARTITO – CIVATI: ‘IL PD NON ESISTE PIÙ, OGGI ESISTE IL PDR, IL PARTITO DI RENZI!’ (SCISSIONE IN VISTA?)

Marco Damilano per ‘L'Espresso'

Oddio, il saggio ideologico sul futuro della sinistra, generi sconosciuti per Matteo Renzi, il saggio, l'ideologia e forse anche la sinistra, almeno quanto le stanze di governo. Ma è il tempo del coraggio, o no?, e allora, è sicuramente un caso, ma la settimana prossima, quando il governo di Matteo Primo entrerà in azione, l'editore Carmine Donzelli spedirà in libreria la riedizione di "Destra e sinistra" di Norberto Bobbio, venti anni dopo la prima pubblicazione.

Nel 1994 fu un clamoroso successo, con la definizione dell'ideale dell'uguaglianza «stella polare» della sinistra, oltre cinquecentomila copie vendute nell'anno in cui Silvio Berlusconi vinceva per la prima volta le elezioni sdoganando la destra. Nel 2014, in appendice al volume, insieme ai testi di due mostri sacri della sinistra mondiale, Daniel Cohn-Bendit e Michael Walzer , comparirà un denso scritto firmato Matteo Renzi, un leader che si esprime con twitter e che detesta le astrazioni filosofiche.

Non sarà l'articolo di Bettino Craxi su Proudhon che uscì su "l'Espresso" nel 1978, il leader socialista a Palazzo Chigi arrivò cinque anni dopo, rispetto all'ex sindaco di Firenze che ha impiegato due mesi era un bradipo, ma è il primo tentativo di dare ordine tra le idee finora confusamente raccolte sotto l'etichetta di renzismo. Perché cambiare l'Italia sarà difficile, il governo Renzi è un compromesso tra la spinta all'innovazione e i riti dell'ancien régime dei palazzi romani. Ma di certo a uscire profondamente modificata, sconvolta, irriconoscibile, sarà la sinistra italiana.

«Nel Pci avrebbero detto: siamo al cambio di fase», riconosce Walter Tocci, dirigente di lungo corso. Un prima e un dopo Renzi, nulla sarà come prima. Il numero due di Renzi a Firenze Dario Nardella già chiede un cambio di nome del partito, da Pd a Democratici. «Macché», scherza Pippo Civati, unico oppositore interno dell'operazione Matteo a Palazzo Chigi, «dopo l'operazione Matteo a Palazzo Chigi il Pd non esiste più. Al suo posto c'è il PdR: il Partito di Renzi».

Sinistra è una parola che il neo-premier non ama. Ricorre solo due volte nelle diciotto pagine con cui Renzi si è candidato alla segreteria del Pd nello scorso autunno. Per dire che la sinistra vince «se non è chiusa nel presente» e che «è imbarazzante sapere che il partito della sinistra italiana, autore di alcuni tra i convegni più interessanti sull'operaismo, è il terzo partito tra gli operai». Impossibile trovare riferimenti culturali, radici, testi sacri nel Pantheon di Renzi. «Il renzismo è un pragmatismo indistinto che non si pone il problema di diventare una struttura di pensiero, è pago di se stesso», spiega un dirigente del Pd, e meno male che non è un nemico ma un renziano della prima ora.

Nelle ore della trattativa sul governo l'effetto dell'indeterminatezza è stata una interscambiabilità dei candidati nei posti-chiave, a partire dal ministero dell'Economia. Per giorni il premier incaricato si è mosso nell'incertezza, a lungo indeciso se scegliere un tecnico come Guido Tabellini o un politico di matrice cattolica, un ex sindaco come Graziano Delrio, mentre un altro possibile candidato, Fabrizio Barca, in un fuorionda accusava: «Non c'è un'idea».

Inutile cercare tracce del progetto nel passato, nelle diverse edizioni della stazione Leopolda, il meeting renziano. Nella prima edizione 2010 c'era Civati accanto al sindaco di Firenze, con il bolognese Filippo Taddei, oggi responsabile economico del Pd, inserito nella cabina di regia che prepara il programma del governo.

Nel 2011 sul palco c'era l'economista Luigi Zingales, di impostazione liberista. E Renzi presenta cento proposte di governo, rivoluzione liberale a piene mani, roba da far apparire il berlusconiano Antonio Martino come uno statalista: privatizzazione delle imprese pubbliche e delle municipalizzate, alienazione del patrimonio immobiliare dello Stato, abolizione dell'Irap, liberalizzazione dei servizi pubblici locali, riforma degli ordini professionali...

Nel 2012, via Zingales, dentro Pietro Ichino, all'epoca senatore del Pd, e l'economista dell'Università Cattolica Massimo Bordignon, esperto di finanza pubblica. Nel 2013 è il turno del deputato Yoram Gutgeld, con l'idea di tagliare l'Irpef per chi guadagna meno di duemila euro al mese, cento euro in più in busta paga, la Renzinomics vira a sinistra, punta a tutelare la parte debole della società.

Ed ecco il Jobs Act, il piano per il lavoro, sempre enunciato per titoli. Ma nella marcia di Renzi verso Palazzo Chigi, oltre ai cambi di esperti e di relative visioni economiche, ci sono alcuni punti fermi mai mutati. Il contratto unico a tutele progressive per i giovani precari, per esempio, in cui si intuisce l'ispirazione di Tito Boeri. La riforma degli ammortizzatori sociali.

I dirigenti a termine nella pubblica amministrazione, la fine dei dirigenti inamovibili nominati a vita. La cancellazione dell'obbligo di iscrizione alle camere di commercio per le aziende. Provvedimenti che rivelano il nuovo blocco sociale della coalizione renziana, i non rappresentati, i giovani precari, gli outsider, ma anche i new comers della finanza (modello Davide Serra), gli imprenditori che rischiano in proprio senza passare dagli incarichi in Confindustria.

Lo scavalcamento di sindacati e di associazioni di categoria, i corpi intermedi che costituiscono da decenni l'ossatura dei partiti di sinistra, è da sempre nel Dna del neo-premier. Basta vedere la differenza tra le consultazioni di Pier Luigi Bersani, presidente del Consiglio incaricato un anno fa, che aveva incontrato l'Anci e la Confindustria, la Confederazione italiana agricoltori, la Coldiretti, la Confagricoltura e il Forum del Terzo Settore, e quelle di Renzi, che si riassumono in un'agenda vuota. E dire che il predecessore alla guida del Pd Guglielmo Epifani gli aveva suggerito di incontrare Cgil, Cisl e Uil.

Niente da fare, «una vecchia liturgia», ha risposto Matteo, che da sindaco e da segretario del Pd ha litigato con Susanna Camusso ma anche con Raffaele Bonanni. Meglio i rapporti personali, come quello con Luca Cordero di Montezemolo o con l'amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra, sondati per un posto da ministro. O con il capo della Fiom Maurizio Landini, in nome di un nemico condiviso più che di una comune idea del mondo, il segretario della Cgil Camusso.

Tra i consiglieri di Renzi, in crescita, c'è l'economista della Bocconi e collaboratore della voce.info Roberto Perotti, autore di un radicale piano di tagli ai costi della politica, una spending rewiew parallela a quella del governo Letta. E il portavoce Filippo Sensi che lo ha accompagnato in macchina a ricevere l'incarico al Quirinale, noto su twitter con l'account di nomfup (acronimo che sta per «not my fucking problem»), ex collaboratore di Francesco Rutelli e vicedirettore di "Europa", qualcosa di più di un semplice addetto ai rapporti con la stampa, simile agli spin doctor anglosassoni che ama intervistare e decifrare, a partire da Alastair Campbell, l'inventore del New Labour di Tony Blair (l'ex premier inglese è stato tra i primi a benedire dall'estero l'operazione Renzi: «Matteo ha la forza per riuscire»).

Anche se dei think-tank che accompagnarono la presa del potere dell'ex premier inglese nella seconda metà degli anni Novanta, e di terze vie e di Anthony Giddens non si vede neppure l'ombra nella scalata di Renzi. E per ora c'è un enorme buco nero nel programma di governo, il rapporto con l'Europa. Finora Renzi ha parlato della necessità di rimettere in discussione i parametri di Maastricht, ma il vero tabù da spezzare, la cosa più di sinistra che potrebbe dire Renzi da Palazzo Chigi, è allentare il fiscal compact, il patto di bilancio che strangola le economie nazionali dell'area Ue, bestia nera di tutte le sinistre europee.

È questa la nuova sinistra di Renzi che arriva a Palazzo Chigi? In largo del Nazareno sono travolti, troppi cambiamenti in soli due mesi. Non c'è un Nuovo Pd da costruire, non c'è stato il tempo, Renzi resterà segretario, ma nel corpaccione del partito si teme ora uno sbandamento. Le elezioni regionali in Sardegna sono andate bene, per mancanza di avversari, ma nella stessa domenica le primarie per eleggere i segretari regionali hanno dato risultati sconfortanti, per la bassissima affluenza nei gazebo, per la qualità dei candidati e del dibattito interno: nullo.

La minoranza post-Ds di Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Matteo Orfini è divisa al suo interno tra filo-governativi e anti-renziani, spera di riprendere il controllo del partito, ma è destinata a restare delusa. E così a fare un nuovo Pd, un Nuovo centrosinistra, speculare a quello di Angelino Alfano a destra, o meglio un nuovo Ulivo, potrebbe restare l'ex compagno di strada di Renzi, oggi ribelle interno, il deputato lombardo Civati. Ha già negato il voto a favore del governo Letta delle larghe intese, smentisce di voler organizzare una scissione, «non mi chiedo se votare la fiducia o no al governo, ma se fidarmi o no di Renzi».

E precisa: «Renzi, Berlusconi, Grillo sono tutti leader trasversalisti, che predicano il superamento di destra e sinistra. Io invece penso che l'identità sia importante: una sinistra liberal, non quella nostalgica degli ex Ds che hanno dato il via libera a Renzi a Palazzo Chigi. Il problema non è se resto io nel partito, è una parte del Pd che rischia di uscire da se stesso».

Renzi il blairiano, Renzi l'obamiano, Renzi che rilegge Bobbio, l'uomo che riporta quindici anni dopo Massimo D'Alema il capo del primo partito della sinistra italiana a Palazzo Chigi, dovrà guardarsi anche da questo pericolo: che il suo «desiderio di essere come tutti», la voglia di fare il governo di tutti, non si trasformi in un'altra delusione, l'incontro con la parola più detestata da Renzi, la più a sinistra di tutte: la sconfitta.

 

 

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